Chissà se c’ha pensato Fabrizio Miccoli mentre dava l’addio al calcio che probabilmente avrebbe potuto avere di più da una carriera che già di per sé è stata ricca di soddisfazioni e di qualche periodo magico. Probabilmente sì. Ma Miccoli è uno che in vita – e in carriera – sua non ha mai riflettuto moltissimo sulle scelte. Non rispecchia quel genio e sregolatezza che col tempo ha quasi preso un’accezione positiva nel vocabolario calcistico contemporaneo, ma rispecchia un modo tutto proprio di intendere la vita e il calcio. Miccoli rappresenta bene una parte della sua terra, quella che ha sempre voluto rappresentare.

L’accento marcatamente leccese non è mai riuscito a toglierlo. Non ha mai voluto perderlo. E quando parla Miccoli non puoi pensare che provenga da qualche altra parte del mondo. Già il modo di parlare, quella cadenza quasi ipnotica, è la carta d’identità ante litteram di un calciatore che ha fatto delle proprie origini un vanto, oltre che una parte fondamentale del proprio personaggio mediatico. Rappresenta quella parte folkloristica, poco attenta alle regole, poco “ammaestrata”, del salentino medio. In questo senso Miccoli è il più terrone dei terroni. Nel senso bello del termine. Nel senso fiero, orgoglioso. Per provenienza geografica, per quel modo di intendere la vita e il calcio: Miccoli è una delle rappresentazioni calcistiche più belle che il Salento, e l’estremo Sud, abbiano saputo dare al calcio degli ultimi 20 anni. Forse la più bella in assoluto. Simbolo del Salento e della propria terra nel calcio come mai nessuno.

Miccoli non è un mafioso. E su quella vicenda non ci tornerei per raccontare le sfumature belle di un calciatore capace di attirare su di sé luci e ombre. Partì da Casarano, debuttando in C1 a 16 anni, dopo aver vinto lo scudetto con la Beretti. Poi la bella esperienza a Terni, nella città dell’acciaio, con la Ternana, prima di passare al Perugia. Dal Perugia alla Juve, e i famosi contrasti con Moggi. Miccoli, probabilmente, non rispecchiava l’identikit del calciatore voluto dalla Juventus, dal punto di vista caratteriale. Un anarchico in un regimo oligarchico voluto dalla triade ha avuto vita breve. Molto breve. I tifosi della Juve non porteranno quasi nulla dietro, di un calciatore che non è mai stato in grado di portare in giro per l’Italia il marchio Juventus. Lui ricorderà quella volta che fu lasciato sull’autobus durante i festeggiamenti dello scudetto in piazza, e di quegli orecchini che non poteva indossare.

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La passione per gli orecchini è un lato importante del carattere di Miccoli. Durante un’asta pregò un amico di comprare – a sue spese – l’orecchino di Maradona. Lo voleva. E Miccoli, almeno per stile, qualcosina di Maradona ce l’aveva pure. In formato ridotto, ovviamente. Si tatuò Che Guevara sul braccio, ma non ne conosceva nemmeno la storia. Era un’idea che aveva preso proprio da Maradona. Poi ne sposò anche l’orientamento politico. Non lascia nessuna eredità, dopo una carriera buttata al vento. Chiude a Malta, troppo a Sud anche per lui che ha fatto la storia del Palermo. Diventando il marcatore rosanero più profilico di tutti i tempi. E che ha voluto chiudere la carriera italiana in quel Lecce che aveva sempre amato. D’un amore viscerale. Vero. Come solo un leccese può amare Lecce. Come solo Miccoli avrebbe potuto.