(Photo by Valerio Pennicino/Getty Images)

C’ho pensato per un po’. Avevo iniziato a sognare da bambino, senza mai immaginarmi realmente calciatore. Avevo contezza delle mie scarse qualità tecniche, poi mi sono reinventato nel mestiere più antico del mondo: commentare quello che non posso fare. O forse era la prostituzione, ma va bene lo stesso, che poi in alcuni casi le cose persino coincidono. Avevo la maglia numero 3, dieci anni e la voglia di giocare anche sotto il sole cocente di Settembre. E al Sud è davvero cocente anche a Settembre, ma non ditelo a quelli che vogliono che il campionato inizi i primi giorni di Agosto “come nel resto d’Europa”. Volevo giocare. E volevo essere Andrea Pirlo, che nel frattempo a Brescia scriveva la prima pagina di una storia bellissima, la sua. Il numero 21 non c’era nella mia scuola calcio, “accontentati del numero di Maldini” mi dissero.

Il resto è storia per fortuna poco nota. Di anni ne sono passati dodici, ho rinunciato al voler giocare a calcio, e mi son limitato a dare calci nelle partitelle. Ho visto Andrea Pirlo vincere due Champions League con il Milan, trasformarsi nel centrocampista più forte del mondo in cabina di regia. L’ho visto dispensare geometrie e lanci disegnati con il compasso, mentre io rimanevo goffo anche nel disegno tecnico. L’ho immaginato in una stanza d’albergo il giorno prima della finale di Coppa del Mondo in silenzio, e magari a dormire. Poi Gattuso ci ha raccontato che era davvero così: Pirlo era tranquillissimo, lui correva in bagno per la tensione.

Di Pirlo ho amato anche quel “not impressed” che ha fatto il giro del mondo. Lo sguardo sempre uguale, la semplicità mai irrisoria del “no look”. Poi l’aspetto serioso, la barba, la voglia di rimettersi in discussione alla Juve, di vincere. La maturità del rapporto con Allegri, mai idilliaco ma nemmeno logoro come qualcuno avrebbe voluto farci credere: un patto di non belligeranza, che nel calcio tra persone intelligenti si fa sempre così. Mi sono svegliato poi una domenica mattina, Pirlo era in America. Nella Juve c’era Padoin che avrebbe giocato contro l’Udinese al posto di quel numero 21 che avevo sognato tanto da bambino. Ha solo un “numero” in meno sulla schiena, e parecchi nei piedi. Lo sguardo di chi sa quello che vuole fare, 4 scudetti consecutivi in bacheca e l’ambizione di continuare a vincere. Idolo di quella parte dei tifosi che pensa di fare ironia. Ma Padoin è stato veramente importante per questa squadra: ha sostituito tutti in tutti i ruoli (o quasi), si è reinventato regista per caso, interno di metà campo nel modo più naturale e terzino destro per esigenza. Forse qualche anno fa mi sbagliavo: io volevo essere Padoin. Perché mi sarei accontentato di avere il privilegio di fare il regista alla prima di campionato, per caso. Volevo essere Padoin.

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