“La riconoscenza è la memoria del cuore”. Per riscontare la veridicità di questa celebre frase del leggendario filosofo cinese Lao Tze vi basterà dare uno sguardo al profilo Facebook di Antonio Giulio Picci. Una bacheca costantemente intasata da messaggi di affetto, di gratitudine, di stima verso un attaccante che ha sempre dato tutto, un vero bomber, un ragazzo “tutto cuore e grinta”, un uomo che vive il calcio con semplicità e passione: “Non mi piace essere ruffiano, non c’è bisogno di procuratori e niente, chi sei tu, chi sono io, si vince la partita e si va avanti”. A scrivere sono addetti ai lavori, compagni, amici, tifosi che vivono di ricordi indelebili, che serbano nel cuore le immagini dei suoi gol, delle sue gesta, delle sue corse sfrenate sotto le curve, perché l’attaccante barese ha percorso la penisola in lungo e in largo lasciando ovunque il proprio segno.
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Incominciamo dalla sua terra, la Bari che lo ha trattenuto per ben 13 anni tra le fila delle proprie giovanili e poi scaricato incomprensibilmente in prestito in C2 con in mano il titolo di vice capocannoniere del Campionato Primavera (22 reti, lasciando alle proprie spalle tanti campioni come l’attuale attaccante della Nazionale Pellé) e una semifinale scudetto persa contro l’Atalanta di Consigli, Pazzini, Montolivo, Canini e Defendi. L’autore del misfatto? L’allora ds dei galletti Fausto Pari, il quale costrinse, al termine di alcune esperienze infruttuose, il 18enne Antonio a ricominciare tutto da capo, a ripartire dalla Serie D, a Brindisi, nonostante un curriculum di tutto rispetto. Picci però non porta rancore, non si è mai scomposto, mai fatto problemi, ha sempre voluto raggiungere il proprio sogno, calcare palcoscenici importanti, e alla fine ci è riuscito, non con la maglia della propria città ma con una maglia che ha amato e ama tuttora, in una carriera fatta di sali e scendi, di scommesse vinte, e zero rimpianti, perché “l’importante è dare sempre tutto ed io do sempre il massimo, chi mi conosce lo sa”.

Prima dell’occasione di una vita a Brescia, il bomber ha trovato continuità di gioco in D, si è affermato come giocatore importante, come attaccante completo. Si è tolto soddisfazioni: 5 stagioni condite da gol a raffica, “Nasco attaccante e morirò attaccante, sono sempre vissuto e vivo ancora per il gol”, e successi indimenticabili come la vittoria del girone H nel 2011-2012 con il Martina Franca. Un’annata straordinaria, 20 gol in 28 partite che attirarono su di lui l’interesse di molte società prestigiose. A gennaio ci provò il Catania di Lo Monaco e Montella ma i pugliesi non ne vollero sapere, la Lega Pro era a portata di mano e infatti alla fine venne conquistata, ma per il centravanti classe ’85 arrivò il doppio salto. A Brescia venne amato da subito per il suo impegno, per il suo entusiasmo, per la sua applicazione negli allenamenti, divenne un vero e proprio tormentone tra cori, striscioni e magliette che recitavano: “Siamo venuti fin qui per vedere segnare Picci”, “Keep calm and Picci Gol”, “Meglio un Picci oggi che un Diamanti domani!”. E così l’intera città lombarda si ritrovò a condividere il sogno di un ragazzo venuto dal basso, di un calciatore che a 27 anni era in procinto di conseguire, dopo tanti sacrifici, l’obiettivo che si era prefisso.

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C’è chi ancora si commuove al Rigamonti di fronte a queste immagini. Una vittoria schiacciante, sancita da un gol liberatorio, dal primo gol in cadetteria di un vero e proprio beniamino, una palla spinta dentro in compagnia di un’intera tifoseria. “Un’esperienza unica, a Brescia ho davvero lasciato il cuore. L’essere ricordato a distanza di anni, io che non sono niente di fronte a leggende come Caracciolo, Baggio, Pirlo, è per me davvero motivo di orgoglio”. Al gol siglato contro il Crotone seguì quello contro il Cittadella: altro gol collettivo, altro gol cercato, altro gol voluto, altra corsa liberatoria, altra esultanza piena di passione. Perché in fondo in Lombardia non ricordano queste sue due reti, non ricordano quel colpo di testa uscito di qualche millimetro che poteva valere la finale playoff, ma ricordano soprattutto la sua persona, la sua disponibilità e cordialità verso i tifosi, la sua maglia sudata, la sua umiltà, le sue lacrime di gioia che valgono più di mille giocate. Ha dimostrato a tutti che cosa significhi essere un giocatore: segnare, da non bresciano, un gol che appartenga a tutti. Ha dimostrato che non serve essere un fenomeno per entrare nel cuore delle persone e che se in un sogno ci si crede prima o poi si avvera: “I risultati si possono raggiungere solo con la determinazione, è la volontà, la voglia, a contraddistinguere un giocatore da un altro”.

A fine anno non ci fu la possibilità di rinnovare il contratto così Picci si rimboccò nuovamente le maniche e riprese a girovagare: “Ebbi il coraggio di tornare in D, di buttare tutto all’aria”. E la D la vinse di nuovo, a Matera. Arrivò a gennaio dal Barletta e portò i lucani dal -9 dalla vetta alla prima storica promozione nel calcio professionistico. La piazza si innamorò di lui, dei suoi gol pesantissimi, ma qualcosa a fine anno non andò per il verso giusto. Ci furono delle incomprensioni, la società si comportò in maniera ambigua e fece scelte che destarono scalpore, “Purtroppo nel calcio non c’è riconoscenza, manca la meritocrazia. Io ho sempre fatto parlare i numeri, il campo, e quando dovevo dire qualcosa l’ho sempre detto in faccia. Evidentemente a qualcuno deve avere dato fastidio, odio l’ipocrisia”. La scorsa stagione lo ha visto militare nel Francavilla, mentre quest’anno gioca nel Matelica: “Nelle Marche mi trovo benissimo, il presidente è davvero ambizioso, c’è una mentalità vincente, mi piace. Siamo a 3 punti dalla prima, lottiamo contro piazze molto blasonate, eppure possiamo essere una mina vagante, il gruppo è ottimo”.
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Con la Lega Pro non c’è mai stato un grande feeling, si sono annusati ma non si sono mai troppo piaciuti. Si tratta di un campionato dalle mille insidie, è un po’ il manifesto del nostro calcio: cambiano le formule, cambiano i parametri, ma restano sempre i soliti problemi. Antonio è una persona schietta e ci tiene a dirci la sua: “Molte squadre giocano quasi per beneficenza, a cifre ridicole. Ci sono solo poche società serie, il livello si sta abbassando sempre di più, vedo solo lanci lunghi e pochi uno contro uno, poca qualità, poco spettacolo. Non ci sono soldi, i ds vanno a prendere giocatori giovani, preferiscono spendere poco. Non vado assolutamente contro i giovani, anzi, ma in Serie D ci sono tanti giocatori che potrebbero fare ben altre categorie, ci sono delle certezze. C’è chi come me ha famiglia ed è costretto a scendere di categoria per soddisfare i propri bisogni. È una situazione che si riflette interamente sul nostro calcio, la B è diventata una competizione ricca di sorprese, c’è molto equilibrio, in A non ci sono più i campioni come Ibra, Kakà, ecc…”. Un pensiero poi per mister Calori: “Lo ringrazierò sempre, mi ha inserito in una squadra importante, in uno scacchiere vincente, fatto di campioni. Mi ha preferito a giocatori che facevano la B da anni. Credo di aver ripagato la sua fiducia ogni volta che sono stato chiamato in causa”, e per uno dei suoi mentori, l’allenatore Vincenzo Cosco: “Il cancro ce lo ha portato via lo scorso maggio però posso dire di avere avuto la fortuna di essere allenato da lui. Abbiamo vinto la D insieme, gli devo tanto, avevamo un rapporto incredibile fatto di un’immensa stima reciproca”.

Il segreto dell’attaccante barese è che non ha mai dimenticato da dove è partito, dove è nato. È rimasto profondamente legato a quella concezione di calcio, un calcio come lo si vede da ragazzini, con passione, divertimento e caparbietà. Penso sempre al calcio, torno a casa e penso alla partita successiva, agli avversari, a vincere, mi guardo partite, analizzo movimenti. Amo questo sport, ho ereditato questa ‘malattia’ dalla mia famiglia, mio padre ha allenato per 30 anni. Anche in futuro rimarrò in questo mondo, molti mi vedrebbero bene come allenatore ma preferirei diventare procuratore o meglio direttore sportivo. Sarei un buon selezionatore, penso di saper leggere bene le caratteristiche di un giocatore”. Sul braccio, sopra al suo numero, il 9, “Solo a Brescia ho preso il 7 perché il 9 lo aveva sua maestà Caracciolo, un amico ed una persona squisita”, ha tatuata una frase: “No importa el tiempo que tarda no voy parar delante a nada” (Non importa quanto tempo ci vorrà, non mi fermerò davanti a niente). “Mi continuo a divertire quindi non smetterò mai di sognare, ci credo ancora oggi, a 30 anni. Spero magari di tornare un giorno in B, al Rigamonti o al San Nicola andrei a piedi, ci spero sempre, ho ancora 6-7 anni davanti, mi sento bene fisicamente e voglio sfruttarli al massimo. Se arriverò, bene, altrimenti fa niente, sono due anni che ho una figlia fantastica e sono al settimo cielo, avere lei che mi guarda è già una soddisfazione enorme. Mi ritengo già un ragazzo fortunatissimo, essere pagato per fare quello che si ama penso sia una delle più grandi fortune, al di là che poi tu ti possa trovare in A, B, C, D”. Se vi chiedete perché nonostante il susseguirsi di fallimenti, scandali per doping, scommesse e vicende giudiziarie, il calcio continua a vivere e ad attrarci più di prima, beh la risposta è da cercare proprio in questo suo volto pulito. Se per Antonio il calcio è una malattia, vorremmo che lo fosse anche per noi. Continueremo infatti tutti a sognare con lui, sperando che la sua storia possa arricchirsi di nuovi ed entusiasmanti capitoli.

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