Quel sogno che comincia da bambino e che ti porta sempre più lontano”, palla al piede. “Non è una favola”, è la storia del calcio italiano. È la storia degli anni ’90, quelli in cui il modello di riferimento in Europa era quello tricolore.

Nell’antico continente, finalmente riunito dopo la caduta del muro di Berlino, a dettare legge durante l’ultimo decennio del ventesimo secolo è stata infatti l’Italia: sette finaliste con tre vittorie in Champions, dodici finaliste con sette vittorie in Coppa Uefa (con quattro finali tutte italiane), quattro finaliste con due vittorie nella Coppa delle Coppe, competizione poi cancellata, per un totale di dodici coppe europee dal 1990 al 1999. Un numero che, rapportato alle prove incolori (specie in Europa League) degli ultimi anni, lascia negli appassionati dello stivale un amaro in bocca non indifferente.

La medesima sensazione che, nonostante la delusione del momento, non riuscì a scalfire la carriera di Roberto Baggio in occasione di quell’errore dal dischetto a Pasadena nella finale di Usa ’94, manifestazione che rappresentò un autentico colpo di fulmine tra il Paese a stelle e strisce e il gioco che da quelle parti chiamano soccer. Oggi, negli Stati Uniti, sbarcano giocatori che all’epoca, a distanza d’anni dall’esperimento del Cosmos di Pelè, Chinaglia e Beckenbauer, gli americani potevano ammirare solo in televisione, tra uno speciale e l’altro sul Sexgate che coinvolse il presidente Clinton. Baggio, che in quel mondiale aveva trascinato gli azzurri di Sacchi in finale da Pallone d’Oro in carica, è stato sicuramente uno dei calciatori italiani più forti e amati di tutti i tempi. Ma accanto a lui, negli anni ’90 funestati politicamente da Tangentopoli e dall’inchiesta Mani Pulite, a distinguersi sui rettangoli verdi furono soprattutto coloro che con le mani riuscivano a emozionare i tifosi e salvare le loro squadre: Pagliuca, Peruzzi, Toldo, Marchegiani, Rossi e un giovanissimo Buffon, ultimi esponenti di una scuola di portieri che all’epoca faceva invidia al mondo.

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Il decennio che ha rivoluzionato l’Europa a livello politico ed economico si è distinto nel calcio per qualche sprazzo di magia in provincia in giro per il continente. I campionati vinti da Napoli, Sampdoria, Leeds, Blackburn, Kaiserslautern, Auxerre e, seppur nel 2000, dal Deportivo La Coruna sono infatti gli ultimi baluardi di un calcio non spendaccione al vertice delle classifiche. Persino il riscatto sociale africano, legato alla figura di Mandela e alla Costituzione sudafricana contro l’Apartheid, visse il suo riflesso negli stadi del mondo a partire dal mondiale italiano del 1990, quando il Camerun di Roger Milla dimostrò agli inglesi e al resto del pianeta che filosofie calcistiche all’avanguardia stavano pian piano permeando anche il continente nero.

Il calcio, dagli anni ’90, ha cominciato a entrare con forza nelle case degli appassionati, non solo in televisione, ma anche, virtualmente, sulle consolle di videogiochi, che in quel decennio vissero un vero e proprio boom. Prendere in mano un joystick e con esso il controllo della propria squadra del cuore, verso trionfi e gloria è diventato col tempo uno sport nello sport perfetto, specie per un popolo come il nostro, formato com’è da milioni di allenatori.

Una fame di calcio che proveremo a saziare; vecchi ricordi dei meravigliosi Novanta che tenteremo di rinverdire. Perché forse non sarà questa sezione a cambiare le regole del gioco. Ma vogliam viverla così quest’avventura: senza frontiere e con il cuore in gola.